VII

ELEMENTI EPICI ED ELEGIACI DELLA POESIA DEL «FURIOSO»

Due grandi episodi poetici, tra i molti di simile intonazione, possono riuscire esemplari ai fini di una indagine sulla poesia ariostesca come autenticamente capace di raggiungere risultati altissimi di elegia e di drammaticità epica e solenne; sono episodi in cui il «sorriso» dell’Ariosto non compare (se non in qualche momento fuggevole) e in cui, pur nel rifiuto di ogni concessione al sentimentalismo e alla retorica dell’eroismo, si afferma una poesia densa di profonda espressione di sentimenti appassionati, nobili, dolorosi, estremamente seri, e coerentemente realizzata in rappresentazioni compatte e potenti.

Su di un tono umano e spirituale di elegia delicata e vibrante si imposta e si svolge quell’episodio della morte di Zerbino che già colpí profondamente il grande De Sanctis che, nelle lezioni zurighesi, ne derivò la certezza (piú tardi meno operante nelle pagine della Storia della letteratura italiana) della forza sentimentale del poeta tradotta nell’esclamazione romantica «quanto cuore aveva l’Ariosto!»[1]. Esclamazione che andrebbe poi piú convenientemente compiuta nella constatazione della grande arte con cui quel «cuore» si era saputo esprimere poeticamente in una direzione di poetica sempre contraddistinta da una misura e da un ritmo eccezionalmente essenziali e «classici», senza mai cedere allo sfogo scomposto, alla diluizione e all’eccesso di una situazione drammatico-elegiaca sempre saldamente dominata e lucidamente rappresentata e graduata nel suo crescere fino al suo dissolversi lento e poco vistoso entro nuove vicende e situazioni.

Siamo nel canto XXIV, quando, per difendere generosamente le armi abbandonate da Orlando impazzito contro l’arrogante Mandricardo che se ne vuole impadronire, il gentile ed eroico Zerbino sostiene con il cavaliere maomettano un duello sfortunato, alla fine del quale è costretto a ritirarsi moribondo, per le gravissime ferite ricevute, e rimane cosí solo con l’amata Isabella. In questa situazione suprema di solitudine e di angoscia la narrazione si cambia in un dialogo tra i due amanti che è certo uno dei momenti piú alti e profondi della poesia ariostesca e di tutta la poesia rinascimentale di cui quella ariostesca realizza ad un livello supremo la tensione spirituale-amorosa avvalorata da una situazione cosí concreta e drammatica, da un sentimento cosí pieno e reale, cosí nobilmente e pur «concretamente» umano.

Tutto è eletto, siglato da una gentilezza e nobiltà supreme e insieme è voce di una esperienza umana che non cerca parole e modi eccezionali. Tutto è intenso e insieme melodicamente armonioso ed anzi la lentezza pausata, composta del ritmo esalta tanto piú la struggente elegia del moribondo, fa vibrare tanto piú profondamente le parole che designano la certezza della morte vicina, la delicatissima allusione alla letizia di una morte in seno all’amata in una situazione diversa, il contrasto disperato di questa ipotesi con la realtà di un distacco che è abbandono della donna ad una sorte oscura e paurosa, le conferme estreme di un amore che supera quel definitivo congedo, l’invocazione appassionata e casta delle bellezze della donna e dei ricordi di un intero legame amoroso:

– Cosí, cor mio, vogliate (le diceva),

dopo ch’io sarò morto, amarmi ancora,

come solo il lasciarvi è che m’aggreva

qui senza guida, e non già perch’io mora:

che se in sicura parte m’accadeva

finir de la mia vita l’ultima ora,

lieto e contento e fortunato a pieno

morto sarei, poi ch’io vi moro in seno.

Ma poi che ’l mio destino iniquo e duro

vol ch’io vi lasci, e non so in man di cui;

per questa bocca e per questi occhi giuro,

per queste chiome onde allacciato fui,

che disperato nel profondo oscuro

vo de lo ’nferno, ove il pensar di vui

ch’abbia cosí lasciata, assai piú ria

sarà d’ogn’altra pena che vi sia –.

(XXIV, 78-79)

In questo ritmo pausato e dolente la risposta di Isabella, che assicura l’amato della sua fedeltà imperitura e promette la propria morte per non lasciarlo mai piú, è introdotta da un’ottava in cui la poesia elegiaca si esprime, prima che nelle parole della risposta, nella rappresentazione sublime della donna e del bacio ultimo da lei dato a Zerbino:

A questo la mestissima Isabella,

declinando la faccia lacrimosa

e congiungendo la sua bocca a quella

di Zerbin, languidetta come rosa,

rosa non colta in sua stagion, sí ch’ella

impallidisca in su la siepe ombrosa,

disse: – Non vi pensate già, mia vita,

far senza me quest’ultima partita [...].

(XXIV, 80)

Qui la poesia raggiunge il suo culmine e condensa tutta la sua forza tenera e limpida in quella altissima immagine della rosa che, ben lungi da un ornamento retorico estraneo alla situazione interna dell’episodio, ne evidenzia il colore sentimentale piú delicato e malinconico trasferito musicalmente nel lento precisarsi dell’immagine perfetta ed allusiva alle stesse condizioni di questa morte giovanile e tenera, lenta e struggente. Lo stesso passaggio di un particolare da una prima redazione («in la siepe spinosa») a quella definitiva («in su la siepe ombrosa») conferma la profondità dell’arte ariostesca nella ricerca del completamento di una immagine in cui ogni parola doveva essere essenziale e poeticamente funzionale alla sua allusione sentimentale.

Se questo breve episodio è tutto impostato e svolto su di un tono elegiaco non bisognoso di alcuna forma di riequilibramento ironico o sorridente (ché il suo equilibrio nasce da una forza che si misura nell’interno della sua stessa dimensione), la non necessarietà del troppo famoso e a volte equivoco «sorriso» come essenziale sigla o filigrana della grande poesia ariostesca è ancor piú ampiamente provata nel lungo episodio della battaglia di Lipadusa, tutto impostato e condotto su profondi motivi eroici e drammatici, a cui anche certe sfumature elegiache o piú preziose (come il noto particolare di Brandimarte che morendo non riesce a completare il nome della donna amata: «né men ti raccomando la mia Fiordi... / ma dir non poté: – ... ligi –, e qui finio»: XLII, 14, vv. 3-4) portano un arricchimento, non una deviazione.

L’episodio è preparato di lontano attraverso la descrizione dei presentimenti lugubri di Fiordiligi, che, lavorando per la battaglia la sopravveste nera del suo compagno, Brandimarte, è invasa da una tristezza invincibile, mai prima provata nella consimile attesa di altre battaglie:

Ma da quel dí che cominciò quest’opra,

continuando a quel che le diè fine,

e dopo ancora, mai segno di riso

far non poté, né d’allegrezza in viso.

Sempre ha timor nel cor, sempre tormento

che Brandimarte suo non le sia tolto.

Già l’ha veduto in cento lochi e cento

in gran battaglie e perigliose avvolto;

né mai, come ora, simile spavento

le agghiacciò il sangue e impallidille il volto:

e questa novità d’aver timore

le fa tremar di doppia tema il core.

(XLI, 32-33)

Un’aura solenne e presaga di lutti, senza ombra di sorriso e di gioia, si propaga poi in tutte le pagine dell’episodio e ad essa contribuiscono la solitudine e il silenzio del luogo desertico e senza vegetazione, in cui i tre campioni «pagani» e i tre campioni cristiani si battono nel duello che dovrà decidere della guerra.

Su questo sfondo nudo e tragico la battaglia (tra Orlando, Oliviero, Brandimarte da una parte, e Agramante, Sobrino e Gradasso dall’altra) si svolge in un clima assorto e severo; su di esso si muovono, gigantescamente stagliati, i personaggi eroici con gesti lenti ed essenziali, privi dello sfavillio di commenti ironici o di prestigiosi rilievi di bravura, che tante volte sviluppano, nel poema, scene di duelli e di battaglie in girandole fantasmagoriche di trovate grottesche, di descrizioni velocissime e quasi compiaciute della propria abilità inventiva, dei propri ghiribizzi e rabeschi capricciosi ed eleganti.

Qui è tutto concentrato e solenne, scandito da pause drammatiche e da sobri rilievi della terribilità di questi scontri che accrescono, con la loro contenuta enfasi iperbolica, il sentimento grandioso di questa eccezionale prova di energie smisurate e quasi sovrumane:

Vêr lui s’aventa; e al muover de le piante

fa il ciel tremar del suo fiero sembiante [...].

(XLI, 73, vv. 7-8)

Quando allo scontro vengono a trovarsi,

e in tronchi vola al ciel rotta ogni lancia,

del gran rumor fu visto il mar gonfiarsi,

del gran rumor che s’udí sino in Francia [...].

(XLI, 69, vv. 1-4)

Cielo e mare collaborano, nella descrizione e nei paragoni, a questa scena gigantesca ed epica nella quale si aggirano i guerrieri senza grida o minacce, tutti chiusi nel loro supremo impegno e nel sentimento della morte che incombe su di loro. Come Sobrino, che, rialzandosi dopo un colpo di Orlando che l’aveva atterrato, vede il re Agramante in pericolo e si avvia a soccorrerlo, silenzioso e gigantesco con quei «lunghi passi» che accentuano intensamente la terribilità del suo movimento e la suspense che prepara il nuovo scontro:

alzò la vista e mirò in ogni lato;

poi dove vide il suo signor, rivolto,

per dargli aiuto i lunghi passi torse

tacito sí, ch’alcun non se n’accorse.

(XLI, 86, vv. 5-8)

O come Gradasso che disperato si accorge di essere «del proprio sangue tutto molle e brutto» (XLI, 95, v. 2).

E poi, quando vede morto il re Agramante, rimane come affascinato e paralizzato e cosí, al sopravvenire di Orlando, non reagisce, come se fosse ormai consapevole di una sorte fatale e invincibile:

Come vide Gradasso d’Agramante

cadere il busto dal capo diviso;

quel ch’accaduto mai non gli era inante,

tremò nel core e si smarrí nel viso;

e all’arrivar del cavallier d’Anglante,

presago del suo mal, parve conquiso.

Per schermo suo partito alcun non prese,

quando il colpo mortal sopra gli scese.

(XLII, 10)

Piú tardi, nel canto XLIII, l’episodio epico-tragico ha una sua ripresa arricchita di toni elegiaci e funebri di singolare finezza e bellezza, quando Astolfo e Sansonetto, ricevuta la notizia della vittoria, ma rattristati per la morte di Brandimarte, si presentano ad annunziare quest’ultima a Fiordiligi, che li attende in un’ansia accresciuta da un torbido sogno funesto.

Ed essa appena li vede giungere con il volto triste, malgrado la grande vittoria, immediatamente comprende ciò che è avvenuto del suo sposo:

Tosto ch’entraro, e ch’ella loro il viso

vide di gaudio in tal vittoria privo;

senz’altro annunzio sa, senz’altro avviso,

che Brandimarte suo non è piú vivo.

Di ciò le resta il cor cosí conquiso,

e cosí gli occhi hanno la luce a schivo,

e cosí ogn’altro senso se le serra,

che come morta andar si lascia in terra.

(XLIII, 157)

E se piú letterari possono considerarsi poi i suoi lunghi lamenti e se anche nel successivo compianto funebre che Orlando innalza davanti al cadavere di Brandimarte si può notare certa progressiva discesa di tono in forme piú oratorie e contorte, quella grande ottava citata e lo stesso inizio del compianto di Orlando dimostrano ex abundantia la profonda capacità ariostesca di dar voce poetica anche a toni autenticamente epici e tragico-elegiaci:

– O forte, o caro, o mio fedel compagno,

che qui sei morto, e so che vivi in cielo,

e d’una vita v’hai fatto guadagno,

che non ti può mai tor caldo né gielo,

perdonami, se ben vedi ch’io piagno;

perché d’esser rimaso mi querelo,

e ch’a tanta letizia io non son teco;

non già perché qua giú tu non sia meco.

Solo senza te son; né cosa in terra

senza te posso aver piú, che mi piaccia [...].

(XLIII, 170-171)

Solennità, ritegno dignitoso ed eroico, prospettiva eroico-religiosa si fondono qui per cedere alla fine ad un piú umano e desolato sentimento di solitudine e di disgusto vitale. E il personaggio di Orlando, tante volte usato per altri ben diversi motivi poetici, qui raggiunge una statura schiettamente eroico-cavalleresca che, ripeto ancora una volta, l’Ariosto era ben in grado di far vivere in una direzione genuina della sua complessa fantasia e del suo complesso mondo sentimentale.

Questa profonda capacità ariostesca di dar vita a sentimenti e ad episodi tragici ed elegiaci, mentre ci illumina sulla complessità e ricchezza umana della sua poesia, non impedisce d’altra parte che nell’insieme del Furioso, come piú interno risultato della sua varietà di motivi, possa ricavarsi addirittura quello che il Leopardi chiamava il tono di «gioia» dell’Ariosto[2]: tono di gioia che nasce proprio dall’ampio respiro con cui egli sa di rappresentare la piú vasta larghezza di motivi umani, dal senso profondo di vitalità superiore che egli sa immettere nella sua grande poesia, abbracciando in una serenità non astratta tutte le dimensioni della vita dell’uomo.


1 F. De Sanctis, Saggio sulla poesia cavalleresca, in Opere, ed. cit., vol. VII, p. 187.

2 G. Leopardi, Zibaldone, a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 1937, vol. II, p. 808.